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Oggi ho scelto di incamminarmi su un terreno minato, dove il rischio di essere frainteso è molto alto, dove le parole mi si possono rivoltare contro e assumere significati lontani o addirittura opposti a quelli per cui le ho scelte.
Così come è accaduto alla vicepreside di un liceo romano che ha consigliato alle studentesse di non indossare la gonna per “non far cadere l’occhio” ai professori di sesso maschile, vista l’assenza di banchi che potessero frapporsi agli sguardi.
Come è ormai abituale da qualche tempo per temi simili, l’evento ha avuto una grande risonanza sui mass-media e ciò che probabilmente voleva essere solo un consiglio di buon senso si è trasformato in un assunto ideologico, in cui la libertà delle studentesse era asservita a un mondo maschilista.
Prima che gli animi delle lettrici si scaldino, sottolineo che ognuno è libero di vestirsi come vuole, ma portando con sé la consapevolezza dell’essere visibile al prossimo.
Fissato questo postulato di base, affrontiamo un corollario di genere, ovvero supponiamo che la persona da guardare sia un donna e colui che la guardi un uomo.
Se pensate che questa ulteriore specifica sia superflua, temo vi sfuggano alcune dinamiche semplici e naturali che fanno parte del mondo degli istinti, del desiderio, delle pulsioni che ogni essere umano porta con sé a prescindere dal fatto che li controlli attraverso l’uso della ragione.
Trovo infatti molto centrato il verbo “cadere”, perché è proprio ciò che può succedere agli occhi di un professore maschio che si trovi davanti una studentessa a cui casomai sfugga un posizione poco opportuna. L’insegnante potrà ovviamente scegliere con il raziocinio di guardare altrove, ma una voce gli parlerà di continuo e lo spingerà a guardare in quella direzione, sottoponendolo a una battaglia tra ragione e istinto, di cui farebbe volentieri a meno.
Addirittura(?), immagino si chieda qualche lettrice, mentre i lettori forse staranno alzando gli occhi al cielo, staranno sorridendo o annuendo nella piena consapevolezza della veridicità delle mie parole.
Un paio di anni fa, ho letto un bellissimo libro che racconta in modo molto accurato e incredibilmente diretto l’essere uomo, e più in dettaglio italiano e di mezza età. Perché ognuno di noi è ovviamente figlio del suo tempo e del luogo dove nasce e cresce.
Sto parlando di L’animale che mi porto dentro di Francesco Piccolo, edito da Einaudi.
Lo scrittore racconta autobiograficamente cosa significhi essere maschio, partendo dalla sua adolescenza e arrivando alla contemporaneità. Spiega come un uomo si trovi inserito in un contesto di suoi simili in cui vengono richiesti dei modi di essere e di agire che certifichino l’appartenenza al gruppo. Racconta i modelli che i libri e i film ci hanno narrato, ricorrendo all’aiuto di Sandokan, per il suo essere spietato guerriero ma anche uomo innamorato che deve nascondere questa sua debolezza ai suoi compagni di battaglia, o anche ripercorrendo la trama del film Malizia, con una Laura Antonelli sogno erotico di una generazione.
E’ la storia di un uomo che sin da ragazzo combatte tra ciò che è e ciò che la società e il branco di cui fa parte gli richiedono che sia.
Al tempo stesso è la cronaca di un conflitto eterno tra le parti del corpo maschile che rappresentano iconograficamente le emozioni: il cervello, il cuore e il pene, quali sinonimo della ragione, del sentimento e dell’istinto. Forze che si contrappongono violente e che quasi sempre non trovano una mediazione soddisfacente per tutte. Anche se non sono qui per recensire il libro, mi appoggio a esso per dare le risposte al tema originario.
L’uomo combatte quotidianamente la battaglia di mediazione sopracitata, dovendo sacrificare una o due delle sue emozioni.
In rari momenti esiste una congiuntura in cui quello che fa mette d’accordo tutto, ma è fugace e soggetta all’usura del tempo.
Con ciò non voglio ovviamente dire che alle donne non possa accadere altrettanto, ma di certo l’educazione sociale alla quale sono state sottoposte ha passato loro dei valori e dei concetti completamente diversi.
Tornando ad appoggiarmi al libro, il titolo racconta profondamente lo stato d’animo di un uomo che porta dentro di sé un animale da tenere sotto controllo, facendo però attenzione a mostrarne l’esistenza ai simili, perché così gli è stato spiegato sin dalla giovane età, negli spogliatoi di una palestra, nelle chiacchiere tra amici ma anche e soprattutto dai mass-media che giocano con i suoi desideri attraverso pubblicità, spettacoli e cinematografia.
Peraltro tutto ciò ne sdogana completamente la correttezza, secondo l’assunto per cui se tutti si comportano in un certo modo o provano istinti simili ai propri, probabilmente questi ultimi non sono così sbagliati.
Quindi cambiando il punto di vista, non indossare una gonna troppo corta in una scuola potrebbe essere un gesto di attenzione verso un professore, affinché non si senta in imbarazzo e costretto a guardare altrove, sebbene l’animale che si porta dentro lo spinga a fare altro.
Detto ciò, se la studentessa sente limitata la sua libertà personale nel non poter indossare una gonna, lo faccia pure, ma che abbia la piena consapevolezza di ciò che accade al di fuori e non pretenda che l’occhio non cada, perché la caduta è umana e inevitabile.
La #violenzadigenere penso sia tutt’altra cosa e va condannata senza mezze misure e con pene severe.